Il nome Baja California Sur indica la porzione meridionale (situata al di sotto del 28° parallelo che ne stabilisce il confine nord) della penisola conosciuta come Baja California, prolungamento della California statunitense.
Come un braccio fatto di sabbia, terra, rocce e cactus, si allunga nell’Oceano Pacifico per oltre 1300 km, fiancheggiando gli stati messicani di Sonora e Sinaloa con i quali crea il Golfo di California, chiamato più spesso Mar de Cortés. Attraverso la Carretera Federal Mexico 1, che è la principale arteria viaria, si può percorrere la penisola interamente, da un capo all’altro, viaggiando da Cabo San Lucas (città all’estremo sud) fino a Tijuana (la città più a nord, confinante con gli USA).
Sono arrivato nella BCS (così viene abbreviato il nome Baja California Sur) con un volo che da Città del Messico mi ha portato a San José del Cabo e da qui, con un’auto a noleggio, sono sceso verso Cabo San Lucas per poi iniziare a risalire la penisola.
Cabo è una città conosciuta per il meraviglioso mare, per le spiagge e per la vita notturna. Il centro abitato, di giorno, è una griglia infuocata di strade e stradine che si incrociano perpendicolarmente sviluppandosi in un dolce sali-scendi e numerosi sono i locali, le discoteche e i bar soprattutto nella zona hotelera (quella degli hotel, naturalmente turistica e a ridosso del mare) dove a farla da padroni sono la musica ad alto volume e le mille luci che accendono le notti di tante persone, non solo giovani o giovanissime, venute a divertirsi, fra giochi acquatici ed eccessi. È una città di impronta fortemente americana in tutto, i prezzi sono alti ed espressi in dollari perché la maggior parte dei turisti che passano di qui sono gringos scesi a godersi il sole ed il bel mare.
A sottolineare ed evidenziare l’anima americana del luogo ci pensano gli edifici sulla cui sommità spiccano un simil King Kong e la “corona” della Statua della Libertà, insieme ad altri all’interno dei quali si trovano gigantografie di Marilyn o Elvis, a voler richiamare quella faccia glamour e vip dell’attraente America cinematografica che tutti conosciamo.
Le spiagge vicine al centro abitato assecondano l’animo giovane e chiassoso di chi giunge qui per fare baldoria e così, nel tempo, sono state invase da locali e bar che sembrano impegnati in una competizione organizzata per stabilire chi ha l’impianto audio più potente, sparando musica a volume davvero esagerato in una macedonia di canzoni che provengono da più parti accavallandosi (impossibile mangiare e bere qualcosa godendosi il panorama in santa pace ed è un peccato anche perché, per dovere di cronaca, devo dire che qui ho mangiato il ceviche più buono che abbia provato finora).
L’immagine simbolo di Cabo, l’attrazione turistica più famosa, è il cosiddetto El Arco (L’Arco) una formazione rocciosa che si getta nell’oceano disegnando, appunto, un arco. Si raggiunge via mare con imbarcazioni che fanno la spola per portare i turisti a vederlo. Ahimè, non ho potuto visitarlo per motivi logistici e di tempo.
Una considerazione personale: se qualcuno in procinto di partire per la Baja per un tour rapido mi chiedesse quale città saltare per risparmiare tempo, indicherei proprio Cabo San Lucas. In fin dei conti questo non è Messico. Si può dire semmai che è la copia di una qualche chiassosa località balneare americana, “uno spring break continuo per giovani ubriachi” come ho letto in una recensione. Ma se chiasso e alcool sono ciò che cercate, allora.. adelante.
Quando si lascia Cabo, si hanno due alternative: prendere la Mexico 1, che passa per San José del Cabo, oppure prendere la Carretera 19 che conduce a Todos Santos. Essendo arrivato da San José, ho optato per la 19.
Ed è così che ho iniziato ad assaporare la Baja, è così che ha iniziato a materializzarsi l’immagine che avevo costruito nella mia testa: strade lunghe, lunghissime, roventi, immerse nelle sconfinate distese di cactus che ti fanno scordare bar e discoteche.
80 chilometri di carretera per giungere a Todos Santos, località attraversata dalla linea immaginaria del Tropico del Cancro. Qui il clima è temperato rispetto al caldo più insistente de Los Cabos, per questo è stata definita la “Cuernavaca della Baja California Sur” (Cuernavaca è una città che dista un paio d’ore d’auto da Città del Messico in direzione sud, detta “dell’eterna primavera” data la bontà del clima e la temperatura che si aggira perennemente intorno ai 25-27 gradi centigradi).
Il centro di Todos Santos si trova a circa 3 km dal mare, le spiagge sono selvagge e la corrente piuttosto forte (siamo affacciati sull’oceano aperto), per cui la costa è battuta da onde costanti e vivaci che rappresentano una manna per i surfisti.
La città si è sviluppata intorno ad un’oasi di un verde lussureggiante, dove spiccano le palme in mezzo a tanti altri tipi di alberi e arbusti caratteristici di zone geografiche in cui l’acqua abbonda, cosa che crea un netto contrasto con l’ambiente che circonda Todos Santos e che si ritrova in tutta la Baja (ovvero sconfinate distese di arbusti secchi e cactus a perdita d’occhio, tipici delle zone aride).
Gli edifici sono prevalentemente bassi (massimo due piani) e seguono le salite e le discese che caratterizzano le vie cittadine. Tra questi il più famoso e visitato è senz’altro il mitico Hotel California che leggenda vuole abbia ispirato l’omonima intramontabile canzone degli Eagles (fatto in realtà smentito dalla band). Gli interni si addicono più ad un museo di arte contemporanea che ad un albergo e il via vai è incessante, non tanto di potenziali ospiti che qui vogliono fermarsi, quanto di affascinati viaggiatori che scattano foto, sbirciano all’interno, osservano beati, col sorrisone, questo luogo il cui nome è davvero leggendario e poi, soddisfatti e con un’emozione in più sulla pelle, se ne vanno (ciò che ho fatto io insomma).
Si lascia Todos Santos proseguendo sulla 19 che corre fra i cactus imponenti e gli avvoltoi collorosso (ci faranno compagnia lungo tutto il viaggio) che volano pigri ma sempre svegli. Viaggiando con l’oceano alle spalle ci ricongiungiamo alla Federal Mexico 1 che ci conduce a La Paz, capitale della BCS affacciata sul Golfo di California.
La città si trova nella parte meridionale di una grande baia che Hernan Cortés scoprì nel 1533, prendendone possesso due anni più tardi e battezzandola Bahía de la Santa Cruz. Ma la spedizione abbandonò il luogo in fretta, a causa della aridità del terreno che lo rendeva inadatto alle coltivazioni. Fu un altro esploratore a darle il nome attuale, tale Sebastián Vizcaíno, che arrivò qui 60 anni dopo l’insediamento di Cortés.
Credo che più di ogni altra cosa mi abbia affascinato il bellissimo malecón (volgarmente tradotto in italiano con il termine lungomare), una passeggiata che si estende per oltre 3 chilometri scrutando la baia, dove lo sguardo si perde sognando galeoni e avventure meravigliose. D’altronde il termine malecón mi ricorda molto la parola “malinconia” e ciò (nella mia testa) lo rende perfetto per descrivere un luogo dove fermarsi ad osservare e sognare.
Famosa è la Catedral de Nuestra Señora Pilar de La Paz, realizzata quasi 500 anni fa dai colonizzatori spagnoli.
È una località turistica ma non così caotica e “agitata” come Los Cabos. Qua si viene più che altro per la bellezza della natura e (nel periodo adatto) per osservare le balene a cui è dedicato un museo che si affaccia sul malecón e non passa certo inosservato, con lo scheletro di un enorme cetaceo che campeggia nel cortile esterno. Jacques Cousteau si innamorò letteralmente di queste acque e le definì “el acuario del mundo” per la loro ricchezza e per la varietà delle specie che qui prolificano.
A chiudere la baia ci pensano le isole Espiritu Santo e Partida (unite da uno stretto istmo), meta quotidiana per studiosi, turisti e viaggiatori che le raggiungono scegliendo fra le tante organizzazioni e i diving center che offrono visite guidate. Costituiscono un’area naturale protetta dall’Unesco e sono disabitate ma il ritrovamento di sepolture dell’epoca pre-ispanica indica l’antica presenza di gruppi indigeni che le occupavano.
I padroni di casa, qui, sono i leoni marini (lupi di mare li chiamano da queste parti) vera e propria attrazione locale. Abituati alla presenza umana, nuotano paciosi in mezzo a noi sempre sotto l’occhio vigile del maschio dominante, un vero colosso che come ti giri lo ritrovi sempre intorno a te, pronto a difendere la sua colonia. È meraviglioso vederli nel loro habitat, interagire con loro ed osservarli così da vicino, a volte tanto da poterli toccare. La guida, prima di entrare in acqua, spiega che amano giocare con gli umani e capita spesso che quando la visita è finita e si torna verso la barca, gli esemplari più giovani si avvicinino e ti mordano le pinne o le mani o le braccia con fare giocoso come per dirti “Ehi, aspetta! Che fai, vai già via?”. L’importante è non avvicinarsi agli scogli, la loro casa, perché questo li agiterebbe scatenando la rabbia dei maschi, cosa che (a quanto dicono e c’è assolutamente da crederci) non è il caso di sperimentare.
Le due isole hanno l’aspetto di un paradiso vergine, privo (fortunatamente) di tutte quelle disastrose contaminazioni che solo noi umani sappiamo e possiamo produrre. Mentre la barca si avvicinava e le costeggiava, avevo l’impressione di trovarmi al cospetto di un ambiente primordiale, dove le cose sono esattamente come erano milioni di anni fa e fantasticavo, immaginando di veder spuntare all’improvviso, come in un bel libro di Jules Verne, un dinosauro o qualche mostro marino.
Mostri non se ne sono visti, in compenso, a dispetto della stagione che “non è quella buona”, una balena ci ha regalato l’emozione di farsi vedere mentre faceva capolino per poi inarcare la schiena e sparire nel blu, seguita pochi minuti dopo da un’elegante manta che ha spiccato il volo per qualche metro come fosse stata lanciata da una segreta rampa sottomarina.
Picchi, vette e pareti rocciose si alternano disegnando bellissime palette cromatiche e numerose insenature regalano la vista mozzafiato di spiagge deserte, cinte da una fascia verde di arbusti e qualche cactus. Si possono raggiungere solo via mare e talvolta capita di imbattersi in qualche imbarcazione i cui occupanti sono scesi a godersi pace e solitudine. Anche l’acqua, col fondale che cambia, regala immagini che sono un’emozione continua.
Il ritorno verso la terraferma ci dà modo di osservare due curiosità ormai famose qui: la mascara, una grande roccia che per effetto dell’erosione ha assunto le sembianze di un mascherone che ci guarda torvo sporgendosi da una parete dell’isola, e un’altra roccia che, sempre grazie alla collaborazione tra gli agenti atmosferici e il passare del tempo, ha assunto una forma particolarissima e viene da chiedersi come faccia a stare in piedi. Si tratta de el hongo, il fungo.
Questa roccia è diventata il simbolo di una delle spiagge più belle nei dintorni di La Paz e la sua immagine viene spesso usata sulle cartoline, nei depliant o nei siti internet che invitano a visitare Bahia Balandra.
Purtroppo anche l’essere umano più stupido e incivile viaggia, gira e si trova a passare in questi paradisi, così un bel giorno, un gruppo di persone che avevano deciso di fotografarsi in cima al fungo lo fecero crollare col loro peso. Un uomo americano, la cui moglie deceduta era innamorata di questa roccia, chiese ed ottenne il permesso per rimetterlo in sesto ed è così che, grazie ad un gesto d’amore davvero commovente, possiamo ancora osservare questo “sasso” che sicuramente ha un’anima.
Balandra, Pichilingue, Coyote, Tecolote, Paraíso, sono i nomi delle meravigliose spiagge che si trovano poco fuori La Paz e che diventano subito le mete quotidiane per godere di un mare bello come pochi e di spiagge bianchissime. La Balandra è probabilmente quella che colpisce di più data la sua conformazione. Si trova all’interno di una vasta insenatura dalle sponde semicircolari, con una profondità dell’acqua che non supera mai il metro poco più (sono alto 1,73 e nel punto più profondo l’acqua mi arrivava al petto, per dare un’idea) tanto da farla sembrare una enorme, meravigliosa, piscina naturale.
La mia solita curiosità e la voglia di scattare foto mi hanno spinto a salire sul fianco di un piccolo promontorio che cinge la Balandra, scoprendo così un’altra cosa molto toccante: una targa affissa alle rocce ed un gabbiano metallico che idealmente spicca il volo ricordano la giovane Gabriella Rose Sicard, 19enne studentessa americana deceduta nel 2011 in un incidente stradale negli USA. Immagino fosse innamorata di questo luogo, cosa che ha spinto gli amici ad omaggiarla così, creando poi l’hashtag #FlyHighGaby (Vola Alto Gaby) che immediatamente dopo la morte della studentessa divenne fra i più popolari su Twitter. Evidente il legame tra la parola gabbiano (che in spagnolo si traduce gaviota e si pronuncia gabiota) e il diminutivo Gaby.
Playa Tecolote e Playa Coyote, che affacciano sul Mar de Cortés guardando l’isola di Espiritu Santo, sono quelle che ci hanno regalato il tramonto sul mare più bello, col sole che lentamente scivola via incendiando il cielo di un fuoco ancestrale.
Tutte queste spiagge si trovano lungo la medesima strada, la Federal 11, che dal malecón di La Paz arriva fino alla punta della baia, snodandosi in mezzo a cactus e picchi rocciosi, in uno scenario che inevitabilmente regala la sensazione di trovarsi nel vecchio far west.
E proprio come se ci trovassimo all’interno della tenuta di un qualche cowboy, è frequentissimo incontrare vacche, tori e vitellini che vagano giorno e notte silenziosi e quasi invisibili, timidamente nascosti tra gli arbusti o dall’oscurità, attraversando di tanto in tanto la carreggiata col rischio di essere centrati in pieno dai veicoli in transito.
A pochi passi dal malecón di La Paz, c’è un luogo particolarissimo e fuori dal comune, divenuto un punto di attrazione molto conosciuto. Si tratta dell’hotel Yeneka,“The only hotel in the world were the guest negotiates the fee with the owner” (“L’unico hotel al mondo dove l’ospite negozia il prezzo col proprietario”) è il loro slogan. Di fatto è così, come spiega la ragazza che gentilmente illustra le camere, invitata proprio dal proprietario dell’hotel che abbiamo conosciuto lì per lì, sul marciapiede, mentre intratteneva alcuni amici. Si tratta di un hotel-museo (come si legge nella loro pagina web), uno spazio dove convive una tale quantità di oggetti che è impossibile elencarli tutti. I resti di un’auto degli anni ’30 al cui posto di guida è seduta una scimmia imbalsamata cattura subito la vista. Ma poi lo sguardo inevitabilmente analizza tutto il resto: ci sono arredi realizzati con pezzi di auto, e poi vecchie panchine, ossa di balena, scheletri vari, ruote di carri, ingranaggi, corna di cervi e di altri animali, ferraglia di ogni tipo, attrezzi agricoli, conchiglie, vecchie biciclette, praticamente ogni sorta di oggetto è finita qua dentro. Il proprietario è un simpaticissimo omone sulla sessantina, alto, capelli folti e grigi, le mani grandi e la stretta forte. È un medico che risponde al nome di Miguel e mentre parlavamo del suo incredibile spazio, ad un certo punto confessa di aver studiato anche in Italia per un periodo. Così, mandando gli occhi in alto, ha iniziato a scavare nella sua memoria alla ricerca del nome di quel professore, che all’epoca era legato al Partito Comunista (unica cosa che ricorda con certezza). Dopo un po’ di esitazione, e dopo avergli suggerito vari nomi, si illumina e ricorda che quel prof. era Giovanni Berlinguer (fratello del più noto Enrico).
Le località da visitare e le curiosità da scoprire sono moltissime, ma quel tiranno che è il tempo ci costringe sempre ad operare delle scelte. Così il viaggio riprende alla volta di Loreto, 360 km di Federal Mexico 1 percorsi in direzione nord, addentrandosi nella penisola per poi buttarsi nuovamente sulla costa del Golfo. Il percorso, che già di per sé è lungo, risulta esserlo ancora di più a causa di una infinita serie di lavori in corso che costringe ad abbandonare la Federal 1 per immettersi in sentieri alternativi, sterrati, dove si procede lentamente con un polverone denso che si alza dai veicoli che ci precedono rendendo la visibilità pari a zero e l’aria irrespirabile.
Il tratto di strada interno alla penisola è un susseguirsi di curve, salite e discese, una monotonia che pare non finire mai, ma quando ci si riavvicina alla costa, gli occhi e la mente si spalancano alla nuova vista del mare. Lungo la strada, circa 15 chilometri prima di giungere a Loreto, si trova il Mirador Frida, una terrazza panoramica intitolata all’amata pittrice. Fu battezzato così perché si dice che l’azzurro intenso dell’acqua ricordi la sua Casa Azul.
Loreto fu fondata da missionari gesuiti e tutt’ora la missione, la chiesa che fu eretta esattamente come le altre centinaia (forse migliaia) sparse in tutto il Messico, è motivo di attrazione e pellegrinaggio.
Ma soprattutto, oggi, è un’altra delle destinazioni turistiche privilegiate da Americani e Canadesi, grazie alla frequenza dei voli che da Stati Uniti e Canada giungono all’aeropuerto internacional locale. Anche in questo caso l’economia ruota principalmente intorno alle escursioni che conducono alle Isla Coronado e Isla Carmen, alla pesca e all’ecoturismo e la bellezza del luogo e dei suoi dintorni, hanno attirato un numero sempre crescente di persone facendo impennare in fretta il mercato immobiliare.
È un pueblo decisamente tranquillo durante la bassa stagione (tutta la Baja California ha il picco di presenze nel periodo gennaio-aprile, corrispondente alla presenza delle balene) ed è piacevole passeggiare sul malecón in compagnia dei pochi residenti. Naturalmente la cucina locale tipica è a base di pesce, in particolar modo sono famose le almejas (vongole di grandi dimensioni) che vengono preparate secondo varie ricette: marinate, ripiene, gratinate, al cartoccio, ecc (per usare termini italiani). La più famosa e tipica resta la almeja tatemada, un tipo di preparazione antico, già presente prima dell’arrivo dei gesuiti, tanto da spingere gli abitanti di Loreto a chiederne la Denominazione di Origine.
Se capitate in zona e volete provarle, il consiglio è di rivolgersi al ristorante Conchó.
La spiaggia di Loreto è caratterizzata da una sabbia scura e “grossa”, i granelli non sono fini come quelli delle bianchissime e incantevoli spiagge incontrate nei dintorni della capitale. In fondo al malecón, lato sud, si trova il letto del fiume (totalmente asciutto in questa stagione secca) che porta lo stesso nome della città e che sfocia nell’oceano creando l’ecosistema perfetto per i granchi che vivono sotto la sabbia e per molte specie di uccelli.
Il suolo diventa limaccioso, i piedi affondano, si ha la sensazione di venire inghiottiti e ad ogni passo una miriade di piccoli punti dal colore marrone/biancastro si tuffano all’interno di minuscole caverne alla velocità della luce.
In lontananza spunta da una cortina di nebbia, affascinante e misteriosa, la silhouette di Isla Carmen adagiata all’orizzonte come una bella donna austera che cerca di fuggire gli sguardi.
Ripreso il cammino, la Federal Mexico 1 punta dritta verso nord, correndo in mezzo ai soliti immancabili cactus e a sconfinate aree secche e brulle punteggiate di magri cespugli che sembrano mendicare acqua.
Curve, rocce, arbusti, sali-scendi si ripetono per altri 80 chilometri circa fin quando la visuale si allarga e si arriva in una delle zone più belle: è la Bahia de Concepción, una lunga e stretta insenatura chiusa fra la penisola e un dito di terra che si allunga dentro il Mar de Cortés. Memori delle meravigliose spiagge incontrate a La Paz, ci si stupisce forse ancor di più per quelle che ci regala (anzi, ci presta cortesemente) questa incredibile baia: Playa Requesón, Playa Escondida, Playa El Coyote, Playa Santispac sono solo alcuni dei nomi che identificano una serie infinita di archi sabbiosi, più ampi o più raccolti, sparsi lungo tutta la costa.
Una meraviglia dopo l’altra alla quale si accede a volte in maniera semplice e comoda, altre volte dovendosi addentrare in mezzo ai cactus che raggiungono altezze anche vertiginose, sempre sotto l’occhio vispo degli avvoltoi che rappresentano davvero una costante in questo pellegrinare.
La maggior parte di queste spiagge è dotata di palapas (capanne realizzate in legno e coperte da foglie di palma) che possono essere occupate per tutto il tempo che si ha intenzione di trascorrervi, gratuitamente. Le capanne sono lì, come fossero sassi o conchiglie portate dalla corrente. All’arrivo in spiaggia, se ce ne sono libere (in bassa stagione lo sono sempre, queste spiagge appaiono come un vero e proprio eden disabitato) si sceglie quella che più ci piace ed ecco che abbiamo il nostro bel rifugio in riva al mare.
Per essere più precisi, all’interno di una delle palapas di Playa El Coyote ho trovato una ricevuta di pagamento risalente alla domenica precedente il mio arrivo, cosa che fa ipotizzare una quota da pagare durante il fine settimana. Chissà.
Playa Santispac è l’unica, tra quelle visitate, alla quale si accede sempre dietro pagamento. L’uomo che ci accoglie all’ingresso della spiaggia spiega che i soldi servono a sostenere le spese per la manutenzione del posto e per la pulizia. In effetti se proprio dobbiamo muovere una critica a questi luoghi paradisiaci (più che altro, ancora una volta, all’inciviltà tutta umana), possiamo dire che per via della loro natura selvaggia, per il fatto che non ci sono strutture, palapas a parte, ed essendo isolate e a volte nascoste, non è raro imbattersi nei resti di un allegro pasto, di una festa tra amici o di una notte brava, lasciati ad imputridire in questo clima torrido da qualcuno a cui faceva fatica pulire.
Purtroppo, dopo milioni d’anni di evoluzione (quale?), non tutti abbiamo buon senso e decenza per portare via i rifiuti.
La Mexico 1, che in questo tratto si chiama anche Transpeninsular Loreto-Santa Rosalia, è costellata di tantissimi accessi laterali, strade e stradine sterrate o ciottolose che conducono ciascuna ad un affaccio diverso sul mare. Se si ha una jeep è molto meglio, soprattutto nella stagione delle piogge, periodo in cui queste vie non asfaltate possono diventare trappole di fango per un’automobile. Avventurandosi è possibile scoprire, oltre alle paradisiache spiagge bianche, zone decisamente “meno balneari” la cui diversa conformazione e la differente corrente marina hanno letteralmente trasformato le rive, sostituendo la sabbia con un’infinita distesa di conchiglie.
Camminarci sopra diventa quasi mistico. Il continuo “scontrarsi” tra le conchiglie calpestate produce un suono che a tratti diventa una melodia ipnotica, come se tantissimi sonagli fatti con questi gusci fossero appesi tutto intorno.
Un gruppo di pellicani silenziosi mi scrutano da lontano.
Quando si arriva nella Bahia de Concepción si entra nella municipalità di Mulegé, nome che corrisponde a quello di un piccolo pueblo sviluppatosi alla foce e lungo le rive di un omonimo fiume. Questo luogo fu scoperto da un padre gesuita agli inizi del 1700 che fondò l’ennesima missione tutt’oggi esistente e meta di pellegrini e viaggiatori.
L’area su cui sorge questo piccolo centro abitato offre un colpo d’occhio sorprendente. Si tratta infatti di un’oasi verde, di una stupefacente ricchezza e una inaspettata rigogliosità in mezzo alle distese di cactus che la circondano e ciò è dovuto alla presenza del corso d’acqua dolce.
Anche qui il turismo americano è il punto forte dell’economia, insieme alla pesca. Il clima, buono praticamente tutto l’anno, la tranquillità e le spiagge da sogno l’hanno fatta diventare meta privilegiata per tanti pensionati amanti della pesca sportiva (nel Mar de Cortés fuori dalla baia si trovano marlin e tonni) che dopo ogni battuta possono rilassarsi in un paradiso terrestre.
Il paese è piccolo e tranquillo ed è il punto base perfetto per dormire e rilassarsi tra un’esplorazione e l’altra della Bahia de Concepción. Sul ciglio della carretera, prima di deviare per entrare nell’abitato, si trova una strana “installazione” che sovrasta la strada. Si tratta di una serie di manichini sgangherati che affollano un carro altrettanto sgangherato, apparentemente inseguiti da un altro manichino (sgangherato anche lui, ovviamente) malamente vestito da poliziotto, col casco in testa, in sella ad una motocicletta su cui campeggia la scritta “USA”. Ho cercato informazioni senza risultato, così ho immaginato fosse una sorta di opera d’arte che fa riferimento alla perenne lotta tra i messicani, spesso in fuga, e l’America, loro eterna nemica/”amica”.
Ripreso il cammino sulla Mexico 1, sempre direzione nord, dopo circa 25 km si giunge in località Palo Verde, una sperduta area secca costellata dei soliti cactus in mezzo ai quali giace tranquilla una piccola anonima pista per aeroplani (roba da film con narcotrafficanti fuggiaschi). Sul lato opposto della strada un minuscolo e colorato cimitero attira la mia attenzione. Si tratta di una decina di tombe che hanno l’aspetto di piccole casette variopinte spuntate dal nulla.
Il caldo soffocante, il silenzio totale.
Sceso dall’auto per scattare qualche foto, prestando molta attenzione a ciò che calpestavo (serpenti, ragni e scorpioni velenosi non sono poi così rari da queste parti), in quell’atmosfera desolante e spettrale, avevo la netta sensazione di essere osservato.
La strada fila via veloce di nuovo e stavolta la meta è Santa Rosalia, una piccola città che porta in sé l’influenza di varie culture e tradizioni. Il suo nome fa riferimento ad una santa italiana, è stata fondata (come di consueto) dagli Spagnoli, l’architettura che la caratterizza è di stampo coloniale-francese, i primi a metterci mano sono stati i Tedeschi.
Tutto ruota (o almeno ruotava) intorno ad un giacimento di rame che fu scoperto nel 1868. La notizia di tale rinvenimento suscitò l’interesse di due imprenditori di origine tedesca che chiesero alla ricca famiglia Rothschild di finanziarli e così aprirono la prima compagnia mineraria, chiamata Eiseman y Valle che fallì una decina d’anni dopo. Successivamente, il presidente messicano Porfirio Diaz concesse la miniera alla francese Compagnie du Boleo che si impegnò a fondare una colonia mineraria con tutto ciò che si sarebbe reso necessario. Iniziò così lo sviluppo di Santa Rosalia.
I francesi realizzarono le infrastrutture, comprese le strade, la ferrovia, l’acquedotto e naturalmente le case, le scuole, i negozi, gli uffici, i laboratori e le chiese, con le tecniche e lo stile architettonico propri della Francia dell’epoca. La popolazione era composta dai dirigenti, dai funzionari, dagli operai (e dalle loro famiglie) della Boleo e per decenni Santa Rosalia è stata l’unica città in tutta la Baja California ad avere l’energia elettrica (e la seconda di tutto il Messico ad esserne dotata dopo, naturalmente, Città del Messico). La chiesa principale intitolata a Santa Barbara è opera di Gustave Eiffel che, come nel caso della sua più famosa opera, oggi simbolo di Parigi, pensò ad una struttura in acciaio.
Lo stile architettonico delle case e dei principali edifici, sembra portarci indietro nel tempo. La maggior parte delle strutture è realizzata in legno ed è facile pensare alla fine del 1800, ai minatori e alla vita che scorreva in questa bella cittadina tutta carpenteria e colore.
Fuori dal tempo pare essere l’ufficio postale in legno dipinto di un caldo color salmone, all’interno del quale non si vedono né computer né altri apparecchi dell’era moderna, solo impiegati che lavorano a mano e tavoli in legno e panchetti e cataste di sacchi, buste e lettere che (presumibilmente) attendono di essere smistate. Magnifici poi sono la panaderia che porta il nome della compagnia francese, il Palazzo Municipale e la biblioteca pubblica Mahatma Gandhi.
Lo spirito de El Boleo continua a vivere nelle vie e nelle piazze di questo pueblo, nelle vecchie locomotive esposte in bella mostra e nei fatiscenti edifici che costituivano il complesso minerario.
Si lascia questa piccola e preziosa perla di manifattura francese con un certo dispiacere.
Percorriamo la solita carretera Mexico 1, per altri 77 chilometri circa ed ecco spuntare l’oasi di San Ignacio. Una fitta giungla di palme ed altre essenze verdissime che crescono rigogliose lungo le sponde di un corso d’acqua, il Río San Ignacio per l’appunto, fanno da cornice ad un insediamento urbano antico. Erano i cochimíes in origine ad abitarlo, gli indios nativi, ma nel 1728 arrivò anche qui una spedizione di missionari gesuiti che vi si installò fondando la loro missione e costruendo la chiesa che tutt’oggi esiste, battezzandola col nome del santo che qui identifica praticamente tutto.
Ed ecco quindi anche la Laguna San Ignacio, una profonda insenatura che dalle coste del Pacifico si addentra nella penisola dirigendosi verso questa località, ed è un altro dei santuari dove è possibile osservare le balene.
Sul ciglio della strada che si stacca dalla Mexico 1 e arriva alla missione e al centro di San Ignacio, si trovano i rottami di un vecchio scuola bus abbandonato e sorvegliato dalle palme. La mente corre al Magic Bus di Christopher McCandless e al suo sogno finito in frantumi.
Siamo pronti, a questo punto del viaggio, a rimetterci in moto per arrivare all’estremo nord della Baja California Sur, a quel Guerrero Negro attraversato dal 28° parallelo, linea invisibile che decreta la fine di questo stato e l’inizio di quello adiacente.
Qui l’aria si fa decisamente più fresca (per la prima volta in tutto il viaggio è stato necessario indossare la felpa), si percepisce un’atmosfera strana, misteriosa, che non saprei descrivere. Forse questo deriva in parte anche dalla suggestione data dal nome del posto, che altro non è se non la traduzione dall’inglese Black Warrior, come si chiamava una nave baleniera che su queste coste si arenò.
Guerrero Negro è caratterizzata dalla presenza di una bellissima oasi naturale protetta, facente parte della cosiddetta Laguna Ojo de Liebre (Laguna Occhio di Lepre), ennesima meta dove si danno appuntamento a cadenza annuale le balene. È un’area paludosa, con una miriade di specchi d’acqua che si distendono in mezzo ad un tappeto di erbe acquatiche. Le sponde morbide rappresentano l’habitat perfetto per i granchi violinisti (gli stessi osservati a Loreto) caratterizzati da una chela molto più sviluppata dell’altra, che qui scavano instancabili le piccole grotte in cui vivono e si rifugiano. Ce n’è una concentrazione talmente alta che a tratti il suolo pare ghiaioso, come fosse coperto da tanti piccoli sassi bianchi. A dar loro la caccia ci pensano gli zarapitos e gli ostreros, uccelli contraddistinti da un becco lungo, sottile e ricurvo i primi, dal becco lungo, dritto e di un colore rosso acceso gli altri. Accompagnati dai più comuni e immancabili gabbiani.
La fortuna economica di questa città è legata al sale. È qui che nella metà degli anni ’50 del 1900, un imprenditore americano ebbe l’idea di realizzare una salina per l’estrazione e la vendita di questo prezioso e diffusissimo materiale, senza minimamente immaginare che sarebbe diventata la salina più grande del mondo.
Qui ogni anno vengono estratte oltre 7 milioni di tonnellate di sale che viene distribuito in tutto il globo.
La salina si trova proprio nel comprensorio della laguna Ojo de Liebre, disegnando con essa un quadro naturale di rara bellezza. Il colpo d’occhio, la distesa bianca all’orizzonte ha un aspetto fiabesco.
Anche Guerrero Negro vanta un hotel del tutto particolare. Si chiama Malarrímo e prende il nome da una spiaggia che dista circa 100 km. Il tratto di costa dove si trova la spiaggia è battuto da una corrente molto forte, risultato della somma di due correnti differenti che confluiscono in una sola: la corrente che viene dal nord, dall’Alaska, e quella che viene da ovest, dal Giappone. Le onde che arrivano sulle coste messicane, create da questa connessione, portano a riva tutto ciò che finisce nell’oceano e viene poi catturato dalle due correnti. Nel corso degli anni, sulla spiaggia di Malarrímo sono stati recuperati oggetti come: parti di aerei della Seconda Guerra Mondiale, pezzi di un satellite caduto dal cielo, enormi ogive di cannoni, remi in quantità, antichissime bottiglie giapponesi che servivano per il trasporto del sake, boe varie, naturalmente ossa di balene e un grande timone che la storia dice appartenere proprio alla Black Warrior.
Tutte queste cose sono elegantemente appese all’interno del bar dell’hotel Malarrímo, dove un simpatico e disponibile cameriere, all’occorrenza, diventa la guida perfetta per spiegare il perché di tutti quegli oggetti.
L’idea di creare un ambiente in cui appendere tutto ciò che la corrente porta su quella spiaggia, venne al fondatore dell’albergo, deceduto qualche anno fa. Lui non c’è più, ma la tradizione va avanti custodita dai suoi figli.
Un residente speciale a Guerrero Negro è l’aquila. Possente ed elegante, vederla volare per poi posarsi su un palo o in cima ad un lampione è una cosa entusiasmante per noi che non siamo abituati, una consuetudine per i residenti del posto che con questi rapaci convivono da sempre. Questi grossi volatili nidificano sulle cime dei pali che portano i cavi dell’alta tensione e questo ha spinto l’amministrazione locale a predisporre delle piattaforme, sistemate sulla sommità dei pali e rialzate (a distanza di sicurezza dai cavi) in modo da evitare un accidentale contatto con la corrente che li fulminerebbe uccidendoli.
Quando si giunge all’ingresso di Guerrero Negro, provenendo da sud ovvero da Santa Rosalia, la Federal Mexico 1 si biforca e crea un triangolo di terra polverosa insieme alla biforcazione opposta (quella cioè che si trova giungendo da nord). Al centro di questa piccola area triangolare, che si trova ad un livello più basso rispetto al piano stradale formando un avvallamento, è stata costruita un minuscola chiesetta colorata che sembra arrivare da un set cinematografico.
Proseguendo più avanti, sul ramo di Federal che punta verso Ensenada, a circa 3 km di distanza troviamo il punto esatto in cui passa il 28° parallelo. È stato segnato con una grossa scultura metallica che rappresenta un’aquila stilizzata con le ali che puntano verso il cielo. Un tempo era accessibile e si poteva giungere fino alla scultura, oggi è circondata da un muro ed è all’interno di un avamposto militare, dove i veicoli in transito vengono fermati e perquisiti.
Il 28° parallelo segna l’esatta metà della penisola chiamata Baja California ed è qui che si è conclusa la mia visita. Da qui ho cominciato a ridiscendere in direzione Los Cabos per tornare a San José e volare di nuovo nella capitale messicana.
Quando sono ripartito da La Paz (scelta come meta per passare gli ultimi 4 giorni in relax, senza più correre qua e là come un matto in auto) ho proseguito in direzione El Triunfo, anziché passare per Todos Santos come nel viaggio d’andata e questo ha significato visitare, senza averlo pianificato, questo piccolo pueblo un tempo famoso e molto vivo grazie ad una miniera da cui si estraevano oro e argento e di cui sono visibili le alte ciminiere oggi in disuso, nonché il suo Museo della Musica dove un anziano (e incredibilmente agile) pianista si stava preparando per il concerto che avrebbe tenuto da lì a pochi giorni. Come se stesse suonando ad una platea di fantasmi, è rimasto sorpreso quando ha terminato il suo pezzo e si è accorto che non era da solo in quella sala. Ha ringraziato per l’applauso e si è avvicinato curioso e molto felice di poter raccontare che da anni collabora con questa istituzione, cercando di incentivare la gente del posto ad appassionarsi alla musica, promuovendo nel frattempo anche lo stesso museo (che di visite non deve averne poi molte).
Christian Schleifer, questo il nome dell’anziano musicista, è di origini tedesche e vive nella Baja da oltre 40 anni. È lui a raccontare della miniera, di come l’economia ruotava intorno alle estrazioni e di come si sia svuotato il paese dopo la cessazione dell’attività. Una storia già vista.
Curiosamente questa piccola cittadina è stata la culla di tanti musicisti appassionati di musica classica europea e nel corso degli anni sono giunti fin qua strumenti provenienti da tutto il mondo, tanto da decidere di fondare un museo. Non è molto grande, conta con una sala principale, dove è esposta la gran parte della collezione, la sala in cui si stava esibendo il sig. Schleifer ed un cortile esterno. Nonostante le sue “poche pretese” è davvero una bellissima rarità trovare ambienti (e persone) così.
E di nuovo, via. L’aereo attende.
È un viaggio davvero strabiliante quello nella BCS, un viaggio attraverso la storia e la cultura, attraverso i suoi popoli e la sua natura. Ripartirei oggi stesso, con gli occhi gonfi di bellezza che traspare dalle foto e con la malinconia che queste immagini a tratti mi trasmettono. Ne avrei moltissime da pubblicare e sarebbero comunque sempre poche per poter rendere giustizia ai panorami ed alle sensazioni che mi sono portato a casa.
Se mai esiste una casa per chi è tanto inquieto.
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